Fonte: di Marisa Galbussera (“Cronache e Opinioni”, maggio 2010)
Così ha detto il Signore Iddio a Gerusalemme: Agirò con te come hai agito tu, che hai disprezzato il giuramento violando il patto. Tuttavia io mi ricorderò del patto che ho stretto con te nei giorni della tua giovinezza e stabilirò con te un patto eterno.» (Ez. 16,3-63)
Consultando il recente rapporto Cisf sulla situazione della famiglia italiana, dal significativo titolo «Il costo dei figli», emerge un quadro piuttosto desolante: da ormai oltre trent’anni il comportamento riproduttivo della popolazione non giunge ad assicurare il ricambio tra genitori e figli. Secondo i dati più recenti il tasso di fecondità totale è attualmente pari a 1,41 e deriva dalla media tra 1,33 figli per donna relativi alla popolazione italiana e 2,12 attribuiti alla componente straniera[1]. In altri termini l’Italia ha un valore minimo da “primato mondiale”.
Il rapporto Cisf riconduce tale caduta della natalità e del suo perdurare nel tempo all’inadeguata accoglienza sociale riservata ai nuovi nati e alle loro famiglie. Mancherebbero in altri termini adeguate politiche di welfare a sostegno delle famiglie con figli.
Tutto ciò ci spinge ad interrogarci sulla natura di tale fenomeno, nonché sulle sue ricadute in termini etici, oltre che sociali ed anche economici.
Partiamo dal presupposto che una comunità che non è in grado di badare alla propria trasmissione (qualsiasi cosa voglia dire questo termine che in seguito cercheremo per sommi capi di chiarire) ha fallito il suo compito. Non a caso un intero capitolo del rapporto è dedicato al tema del figlio come «bene privato» o come «bene pubblico». L’autore osserva giustamente che «la polarizzazione fra il considerare il figlio come bene privato oppure come bene pubblico dimentica che il figlio è sia l’uno che l’altro, ma soprattutto che è un bene comune, un bene relazionale».
Sembra dunque che gli Italiani abbiano dimenticato che la focalizzazione sul bene comune dei cittadini sia il fondamento stesso dell’essere comunità e dunque dell’essere stato civile.
Senza questo presupposto essenziale si tradiscono gli obiettivi fondamentali del costituirsi in aggregati comunitari e dunque i presupposti stessi dell’essere stato civile.
Ma cosa s’intende per bene comune? E per comunità? Il termine comunità deriva da cum munus. Esposito, nel suo volumetto dal titolo Communitas[2], spiega che il munus è il dono, ma un dono particolare, in quanto comporta un obbligo, un dovere. Una volta che qualcuno ha accettato un munus, è posto in obbligo (onus) di ricambiarlo o in termini di beni o di servizio (officium). Il munus insomma è il dono che si dà perché si deve dare e non si può non dare. In altri termini il munus, benché generato da un beneficio precedentemente ricevuto, è proiettato nell’atto transitivo del dare. Non implica in nessun modo la stabilità di un possesso, e tanto meno di un guadagno, ma piuttosto una perdita, una sottrazione, una cessazione: è un pegno o un tributo che si paga in forma obbligatoria. Il munus è l’obbligo che si è contratto nei confronti dell’Altro e che sollecita disobbligarsi. «Munis, in questo senso, è colui che manifesta la propria grazia, dando qualcosa che non può tenere per sé. E di cui, dunque, non è più del tutto padrone». Il «riconoscente» cioè riconosce che deve qualcosa di cui è stato beneficiato e di cui è chiamato a rendere conto in forma che lo mette a disposizione, o addirittura «in balìa», di qualcun altro. Ciò che prevale nel munus è dunque la mutualità del dare che, come scrive Esposito, «consegna l’uno all’altro in un impegno, e diciamo pure in un giuramento, comune: iurare communiam o communionem nel vincolo sacrale della coniuratio».
Esposito precisa più oltre che la partecipazione alla comunità ha a che vedere con il primo munus che dall’alto Dio concede all’uomo, tramite il sacrificio di Cristo.
In altri termini è solo questo primo dono dall’alto che mette gli uomini in comune tra loro; essi sarebbero sì fratelli, Koinonoi, ma in Cristo, ciò in un’alterità che ci sottrae la nostra soggettività, per agganciarla a quel «punto vuoto di soggetto» da cui veniamo e verso cui siamo chiamati.
Dunque il nostro donare nella comunità è sempre difettivo e uno specchio dell’unico vero dono che ci è venuto dal Donatore. Dunque il nostro donare non è interamente nostro. Per questa ragione il «prendere parte» vuol dire tutto fuorché «prendere» ma, al contrario, significa perdere qualcosa, diminuirsi, condividere la sorte del servo e non quella del signore: il dono della vita di Cristo.
Alla luce di queste considerazioni possiamo chiederci se in una comunità che voglia dirsi tale, in una comunità come communitas, cioè in una comunità di pari assimilati da uno stesso dono ricevuto e dunque in dovere di dare, è possibile considerare i figli davvero come un bene privato?
La paternità e la politica, intesa come cura della polis, sono strettamente interconnessi a partire da questo concetto di cum munus, di comunità. Ed infatti anche un padre ha con il proprio figlio un debito, che non è tanto quello del sostentamento (anche), ma prima di tutto quello di trasmettere un dono/dovere. Ciò che un padre deve trasmettere a un figlio è il debito che egli ha con l’amore, vale a dire con quel primo dono che viene dall’alto, implicito nel concetto di comunità.
Un figlio, in altri termini, non dovrà mai ereditare un debito con il proprio padre (questo il meccanismo che produce la nevrosi), ma il debito del padre con l’amore.
Ciò comporta che nessuno – né il padre né il figlio – uscirà dalla solitudine del proprio personale rapporto con l’Assoluto, ma entrambi potranno essere nello stesso rapporto con l’Assoluto, come Abramo e Isacco sono nello stesso rapporto col Dio della promessa.
E’ proprio il mancato funzionamento di questa trasmissione, o alcune sue distorsioni, ad essere a fondamento dei disagi soggettivi che affliggono la nostra psiche ed il nostro modo di stare insieme nella società.
E’ certo che, come il rapporto Cisf mette bene in evidenza, la modernità sembra sapere sempre meno che cosa significhi essere padre, dal momento che sembra allontanarsi sempre più da questa prospettiva del munus, vale a dire del dono/debito che noi abbiamo per il fatto stesso di essere al mondo. Sembra infatti che in particolare la società italiana non riesca a fare altro che lasciare debiti economici alle nuove generazioni, anziché prendersi cura di trasmettere l’unico vero dono/debito che ciascuno di noi ha con l’unico vero Padre che ci ha generato.
E’ vero che, come esplicita anche il rapporto Cisf, la crisi della famiglia è anche una crisi dell’intera società, piuttosto che una premessa per il suo progresso: le patologie della famiglia sono anche la sua negazione in quanto «comunità». Le conseguenze sulla salute di ciascuno dei suoi membri sono sotto gli occhi di tutti: oggi il disagio soggettivo è così diffuso che spesso si stenta a riconoscerlo. Non solo le nevrosi, ma forme di disagio ben più gravi si stanno diffondendo a macchia d’olio, soprattutto tra le giovani generazioni: anoressia/bulimia, alcolismo, tossicodipendenza, disturbi psicosomatici, dipendenza da internet, depressione e gioco d’azzardo. Questi disagi si sviluppano e si perpetrano all’interno delle famiglie e ne esprimono la difficoltà ed il disagio. Le comunità in cui cresciamo, le logiche in base alle quali sono organizzate, ci determinano a svariati livelli e determinano anche il nostro rapporto con la salute o con la malattia. E’ urgente prendersene cura se vogliamo arrestare il triste declino cui siamo da tempo avviati e che è prima etico e culturale oltre che, inevitabilmente, politico ed economico.
[1] Istat, 2009.
[2] Esposito R., Communitas, origine e destino della comunità. Einaudi Ed., Torino, 1998.