VERTICALE E OBLIQUO. Il disagio femminile, oggi.

di Marisa Galbussera (“Cronache e Opinioni”, gennaio/febbraio 2012)

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di Marisa Galbussera (“Cronache e Opinioni”, gennaio/febbraio 2012)

“La donna è pari all’uomo?”. A nessuno verrebbe mai in mente la domanda contraria: “L’uomo è pari alla donna?”. Per gli antichi esisteva una verticale assoluta rispetto alla quale si definiva l’obliquo. La verticale assoluta è in questo caso il maschile e l’obliquo è l’eccezione, l’assenza. “La femmina è femmina in virtù di una certa assenza di qualità” scriveva Aristotele; dunque all’interno di un ordine maschile esiste l’obliquo, l’assenza, «l’eccezione donna».

Un mio insegnante, cui mi rivolgevo, ormai molti anni fa, per preparare un lavoro sulla sessualità femminile, mi consigliò una serie di testi che si erano occupati di quella che è sempre stata definita dalla psicanalisi “la questione femminile”. Molti gli scritti consigliati, che spaziavano dal campo squisitamente psicanalitico, a quello della letteratura, dell’arte, della mitologia.

Quando successivamente chiesi allo stesso supervisore di approfondire il percorso della sessuazione maschile, mi sentii rispondere: “è sufficiente studiare i testi di psicanalisi”.

Come a dire: non c’è nessuna “questione maschile”. Esiste la verticale, rispetto a cui noi ragioniamo, pensiamo, eseguiamo degli atti, persino psicanalizziamo … esiste poi una eccezione, una diversità.

E questo non perché la psicanalisi sia maschilista, anzi! Un grande contributo al percorso del suo sapere viene da donne come Melanie Klein, Anna Freud, Francoise Dolto, ecc. Ad essere maschile è piuttosto il nostro apparato culturale e linguistico; la stragrande maggioranza delle categorie che usiamo per pensare sono maschili…

Ebbene, anche nella psiche, nel nostro modo di pensare ed avvicinare la realtà, esiste un «maschile/normale» e poi esiste un «femminile/obliquo/diverso».

In altri termini il “secondo sesso” è sempre e solo il femminile, mai il maschile.

Da giovane studente ne ebbi a male, ma solo nel tempo compresi che tutto ciò non era necessariamente negativo. E non solo e non tanto perché occorre fare di necessità virtù – magra consolazione – ma perché col tempo capii, anche grazie al mio lavoro quotidiano con i soggetti in analisi, che nell’esistenza di ciascuno di noi conta più l’eccezione della regola, l’obliquo rispetto alla verticale. In altri termini la vera difficoltà consiste nel modo in cui ciascuno di noi prova a gestire ciò che gli/le manca, piuttosto di quello che ha.

«Siamo degli esseri necessariamente esposti» diceva Hannah Arendt, vale a dire abitati fin dalla nostra venuta al mondo, dalla mancanza, che è costitutiva del nostro essere soggetti: e questo vale sia per il maschile che per il femminile. In altri termini, nella nostra vita, la vera difficoltà consiste generalmente nel gestire le situazioni prive di regole precostituite, in cui non ci sono norme che ci indicano la strada, non ci sono ricette preconfezionate.

Ma i mutamenti sociali si riflettono sempre ed immediatamente in mutamenti delle psicopatologie. Nel mondo d’oggi le nevrosi classiche più tipicamente femminili come l’isteria sono diventate rare, mentre le patologie che una volta apparivano di rado, come i disturbi alimentari, le dipendenze, gli attacchi di panico e le depressioni, sono divenute endemiche e nella seconda meta del 900 un nuovo disturbo, anche questo tipicamente femminile, ha fatto la sua comparsa diffondendosi rapidamente e sorprendentemente: l’anoressia/bulimia.

Mentre nell’isteria oggetto della sfida era il potere maschile, nella anoressia oggetto della sfida è l’onnipotenza femminile. La strategia dell’anoressica è la distruzione sistematica dei segni della femminilità corporea, la cancellazione di ogni differenza sessuale, il corpo magro è un feticcio, usato per negare qualsiasi mancanza. “Non manco di nulla” dice l’anoressica, “io posso dominare il mio corpo con tutti i suoi segreti, posso vivere anche senza nutrirmi, io sono onnipotente”: è questo il messaggio terribile che lancia, è l’idolatria narcisistica di riconoscersi come il principio e la fine dell’esistere, e il corpo svuotato da qualsiasi sacralità, viene consegnato alla pura mercificazione.

Il corpo delle donne, come una sorta di diapason privilegiato delle insufficienze etiche della cultura del proprio tempo, esprime appieno quanto avviene nell’ordine sociale e culturale divenendo teatro, inscenazione, rappresentazione dei conflitti psichici.

Molte giovani donne, venute alla mia osservazione, vivono questo gravissimo disagio che in ultima analisi rispecchia lo spirito del nostro tempo, là dove il sacro è stato espulso. Il corpo delle donne si fa messaggero di un ordine simbolico che le aggredisce, che le usa, che le mostra, che le umilia come si può immediatamente cogliere sfogliando una qualsiasi rivista e guardando alcuni messaggi pubblicitari.

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